venerdì 6 gennaio 2023

LA PANDEMIA DEL 1918




LA PANDEMIA DEL 1918: LA SPAGNOLA  

 di Fabio Bertinetti





La prima ondata.

Il binomio Guerra-epidemia è piuttosto comune e la Grande Guerra non fece eccezione, anzi! Considerando che dal maggio 1915 al novembre 1918, in Italia, vennero mobilitati oltre 5.400.000 uomini si può ben capire quanto eccezionale fosse la concentrazione di soldati nelle trincee e negli alloggiamenti di seconda linea. Considerando poi: le condizioni igieniche nelle trincee, l’esposizione alle intemperie e la malnutrizione, non è affatto stupefacente il pensare che potessero sorgere delle epidemie tra i soldati impegnati al fronte e che potesse, quindi, esserci il pericolo che tali malattie venissero poi diffuse nelle retrovie. 
Le vere eccezioni rispetto alle normali epidemie furono proprio la rapidità con cui la malattia si diffuse e la quasi contemporaneità nello svilupparsi dei focolai. Tutto ciò rese impossibile l’adozione di misure di contenimento dei malati. In più si aggiunsero gli effetti diretti e indiretti della censura di guerra.
Considerando che il 1918 è un anno cruciale per le sorti della guerra appare naturale che le informazioni sull’epidemia in corso non venissero divulgate. In particolare la legge che consentiva ai prefetti di chiudere un giornale qualora avesse veicolato notizie che potevano nuocere al morale della popolazione, rendeva i quotidiani piuttosto cauti nella scelta delle notizie e non erano infrequenti veri e propri casi di edulcoramento delle stesse, arrivando quasi all’autocensura.
Tutto ciò limitò notevolmente gli effetti da psicosi collettiva che altrimenti avrebbe causato un morbo così virulento e consentí altresì di favorire il lutto eroico e pubblico dei caduti in guerra, piuttosto del lutto privato per malattia.
“In più c'è da mettere in conto il velo dell'oblio steso dal mondo medico-scientifico su quell'epidemia cui era legato il primo e più bruciante smacco dal momento in cui - con le conferme venute da Pasteur alla teoria del «contagio vivo» - era cominciato il cammino trionfale della microbiologia.” 

Con tali premesse, all’inizio della primavera del 1918 si presentò il morbo:
“Quasi tutte le ricostruzioni più recenti concordano però nell'indicare il primo luogo in cui l'epidemia influenzale fu segnalata ufficialmente ai primi di marzo del 1918: il campo di addestramento militare americano di Camp Funston, nel Kansas, dove erano concentrate migliaia di giovani reclute in partenza per l'Europa. In realtà, la malattia era comparsa qualche settimana prima sulla costa settentrionale della Spagna. Estremamente contagiosa, quella che sembrava una semplice forma influenzale si diffuse ben presto in tutto il Paese. Se nei paesi impegnati nel conflitto una rigida censura militare impediva la diffusione di informazioni capaci di deprimere le popolazioni, già provate da quattro lunghissimi anni di guerra, nella neutrale penisola iberica non c'era alcun freno. Così poterono liberamente circolare le notizie della «strana forma di malattia a carattere epidemico» che a Madrid aveva colpito un terzo della popolazione, costringendo alla chiusura diversi uffici pubblici. Quando lo stesso sovrano, Alfonso XIII, fu costretto a letto dalla malattia, come altri otto milioni di spagnoli, tutti i giornali non mancarono di dare risalto alla cosa. Fu per questo che gli spagnoli, indignati, dovettero sopportare di vedere attribuire al loro paese il ruolo di «culla» dell'infezione, che sarebbe stata ricordata per sempre col nome di Spagnola” .
In breve tempo l’epidemia si diffuse in altri Stati americani e, veicolata rapidamente dallo spostamento delle reclute, in Francia. Rispetto alle pandemie dei secoli precedenti questa “Spagnola” aveva un potente alleato: l’enorme evoluzione dei sistemi di trasporto che, unita al grosso volume di spostamento delle truppe interno ai paesi belligeranti, consentì all’epidemia di trasformarsi in pandemia.
Nei mesi maggio e giugno l’influenza iniziò a comparire in Italia. Si diffuse a macchia di leopardo e da subito coinvolse numerose persone senza distinguere tra civili e militari.  Non si trattò di una forma grave di influenza. La febbre durava dai 3 ai 5 giorni e non dava luogo a particolari complicazioni. Era piuttosto contagiosa, quindi in grado di “decimare” temporaneamente  interi reparti militari, e le maggiori preoccupazioni  si ebbero a causa del suo interferire con le importantissime operazioni militari attive o pianificate nella primavera del 1918.
La prima ondata di febbre spagnola passò e la sua scarsa pericolosità si desume anche dagli indici di mortalità rilevati in Italia nei mesi di maggio e giugno del 1918 (vedi foto): “Fatto uguale a 100 il numero medio dei morti del mese corrispondente nel triennio di pace 1911-1913, il numero indice, che era sceso a 97 a marzo, sale a 102 in aprile, quando l'influenza non era ancora arrivata e si mantiene a questo livello a maggio e giugno, per scendere a 100” .
Il peggio sembrava passato e la guerra, per ora, rimaneva l’unica tragedia mortale che affliggeva il pianeta.


Un cupo autunno.

L’estate del 1918 passò alla storia come particolarmente calda e secca. Oltre a ciò le preoccupazioni erano più sul fronte bellico, ove si cercava di capitalizzare i successi militari primaverili, che non sul fronte sanitario. Eppure un qualche sentore di ciò che sarebbe arrivato con la “seconda ondata”, qualcuno in Italia lo ebbe.
A metà luglio la prefettura di Catanzaro conferì al direttore della stazione sanitaria marittima di Crotone,  l’incarico di effettuare delle ricerche batteriologiche sul sangue e l'espettorato di due coniugi del comune di Limbadi «deceduti in seguito ad un'infezione di tipo influenzale». Altri casi erano stati segnalati, sempre in luglio, nell'Italia meridionale. Secondo alcuni clinici, in realtà, non vi fu una distinzione netta tra l’ondata primaverile e quella estivo-autunnale.  Si era notata una diminuzione dei casi febbrili, ma non un’ interruzione assoluta.
In ogni caso le prime segnalazioni ufficiali della forma grave di malattia furono segnalate a Parma il 20 agosto, presso un campo di addestramento reclute. In pochi giorni 500 dei 1600 uomini si erano ammalati e 13 di loro erano morti in seguito alle complicazioni respiratorie. Da tale relazione redatta dalla  Commissione ispettiva per la profilassi delle malattie infettive, si evince che fu proprio in Italia l’esordio della forma grave di influenza e non, come precedentemente ritenuto, nel porto di Brest in Francia. Entro pochi giorni i morti nella città emiliana salirono a 77 di cui 37 militari. Nelle settimane successive, tra notizie di cronache e necrologi si cominciò a prendere atto dell’esistenza di una forma grave d’influenza che colpiva maggiormente i soggetti giovani e sani e proprio su di essi si accaniva fino a portarli, in alcuni casi, alla morte.  La guerra ancora stornava l’attenzione delle masse, ma: “l'attenzione dell'opinione pubblica, in quel mese di settembre, era ancora tutta volta a seguire «l'irresistibile avanzata» alleata sul fronte francese, la battaglia delle Argonne e la disgregazione dell'esercito tedesco, cui i quotidiani dedicavano le prime pagine e titoli a caratteri cubitali. Ai primi di ottobre, però, venuta meno l'eccitazione, provocata dalla notizia che gli Imperi Centrali avevano proposto a Wilson di discutere la pace sulla base dei «14 punti», l'attenzione generale tornò bruscamente alla realtà della vampa epidemica che aveva ormai investito tutte le grandi città italiane: Per due giorni l'opinione pubblica eccessivamente illusa dalla proposta di armistizio avanzata dagli Imperi Centrali, non si è interessata che alla possibilità di una pace che col raggiungimento delle nostre aspirazioni nazionali ponesse finalmente termine all'immane conflitto che da anni insanguina i campi d'Europa; ora la calma è tornata negli spiriti e invece che della pace, forse ancora lontana, si parla di nuovo, un po' dappertutto, dell'influenza. Le notizie o meglio le voci incerte e spesso cervellotiche sul propagarsi dell'epidemia fanno le spese di tutti i discorsi, di tutte le discussioni, di tutte le previsioni nelle famiglie, nei negozi, nei caffè, sui tram” . 
Dopo il brano tratto dal libro “La spagnola in Italia” di Eugenia Tognotti,  torniamo  con lo sguardo alle tabelle di mortalità già viste per valutare la letalità della prima ondata. In questo caso, però, appare evidente che nei mesi di settembre ed ottobre l’indice salga in modo impressionante (neanche tre anni di guerra fecero registrare oscillazioni così repentine) toccando 251 e 594 (su base 100), registrando tassi di mortalità quasi sei volte superiori alla norma, per poi declinare nei mesi di novembre e dicembre. Il picco della seconda ondata era passato ma in poche settimane aveva mietuto centinaia di migliaia di morti solo in Italia.


I sintomi

Ma quali erano i sintomi che caratterizzavano tale temibile malattia? Improvvisamente la persona colpita cominciava a bruciare di febbre (39°-40°) e ad avvertire fastidi alla gola, stanchezza, mal di testa, dolori diffusi agli arti, congiuntive iniettate, talora sangue dal naso e nausee. Nella maggior parte dei casi dopo qualche giorno la febbre scendeva e non rimanevano strascichi, mentre I casi gravi registravano una ricaduta dopo una breve illusione di guarigione. Il decorso maligno della malattia comportava complicazioni ai bronchi e ai polmoni, oppure delle encefaliti (anche se raramente). In ogni caso gli anatomo-patologi: “si trovavano di fronte a polmoni tumefatti, a milze enormemente cresciute, ad alveoli polmonari che straripavano di essudato albuminoso, a tessuti necrotici che nelle tavole a corredo dei contributi dei patologi nei giornali specialistici appaiono come una superficie lunare disseminata di crateri”.  E ancora: “Le autorità sanitarie ripetevano fino alla nausea che si trattava di un'epidemia di influenza, ma pochi erano disposti a crederci. A memoria d'uomo, nessuno aveva mai visto tante morti provocate da quella malattia, che in genere insorgeva nella stagione fredda e non in piena estate. Per di più, questa volta, colpiva soprattutto giovani adulti nel pieno rigoglio delle forze. Un fenomeno, questo, osservato in tutti i paesi del mondo interessati dall’infezione”. 
Quest’ultimo aspetto, in particolare, fu tra quelli a destare maggiore scalpore ed angoscia: il pensare che persone in perfetta salute e nel vigore della giovinezza potessero “sfiorire” così  in fretta, in particolare giovani donne.  Morire in pochissimi giorni e lasciando soli figli piccoli, magari già  provati dalla lontananza dei papà a causa della guerra, o peggio dalla loro morte nel fango delle trincee o tra i ghiacci del fronte dolomitico. 
Anche a distanza di un secolo è comune il rimpianto, tramandato dai propri nonni o genitori, per perdite così improvvise.

Le contromisure sanitarie

 

 

Per capire il senso delle misure sanitarie applicate al tempo occorre considerare che il virus non venne isolato (se non alla fine del secolo) e quindi, non solo non vi fu il presupposto essenziale per la creazione di un vaccino, ma neppure la consapevolezza di quali fossero le condizioni più favorevoli per la sua diffusione.

Premesso ciò appare molto comprensibile che l’approccio adottato fu quello delle vecchie “dottrine miasmatiche” e cioè: eliminazione dei rifiuti urbani, pulizia delle strade e dei luoghi pubblici e quarantenee dei malati fino alla cessazione delle manifestazioni ciniche della malattia. Proprio la quarantena, che poteva essere la forma più efficace di prevenzione della malattia, fu quella di più difficile applicazione, sopratutto in paesi come l’Italia, ove le operazioni di guerra prima e smobilitazione poi la resero di fatto inapplicabile nelle forme che sarebbero state utili.

Si chiusero chiese, scuole, teatri e luoghi pubblici, proibite le visite agli ammalati nelle case e negli ospedali , si anticiparono gli orari di chiusura di osterie e ristoranti, ma si trattò sempre di iniziative locali con scarso coordinamento nazionale.

Un altro “caposaldo” delle misure di contenimento furono quelli della disinfezione e sterilizzazione anche (e soprattto) di strade e luoghi pubblici all’aperto. Misure che risultarono anche sovradimensionate rispetto al reale pericolo che si correva nel trovarsi all’aperto.

A titolo di esempio riportiamo le misure adottate dal Comune di Fucecchio:

 “-Si proibisce di spargere e gettare in strada la spazzatura e la mondatura degli ortaggi.

  -La spazzatura e la mondatura va messa dentro secchi tappati che verranno prelevati dagli spazzini.     Il loro passaggio sarà segnalato dal suono di una trombetta.

    -Nessun secchio può essere depositato davanti casa dopo il passaggio degli spazzini.

    -È proibito orinare ai muri e gettare escrementi. 

    -Lo svuotamento delle fogne e dei pozzi neri deve esser fatto di notte, dalle ore 22 alle ore 6.

    -È vietata l'esposizione delle carni macellate nelle vie pubbliche.

    -È proibito spellare e pulire animali uccisi nelle strade.

    -Non possono circolare nelle vie e piazze cittadine capre e pecore. 

    -È vietato far circolare polli. 

    -È proibito l'allevamento dei conigli nelle stanze adibite ad abitazione. 

    -È proibito l'esercizio di qualsiasi mestiere nelle vie.

    -È proibito esporre al pubblico qualsiasi genere alimentare.

   - Le lavandaie devono trasportare i panni sporchi dentro sacchi chiusi.

    -È vietato esporre indumenti o scuotere lenzuola e tappeti dalle finestre che si affacciano nelle strade e sulle piazze.

 

L’aspetto riguardante l’igiene non riguardò soltanto i luoghi, ma anche le classi sociali. Si verificarono, infatti, episodi di iginizzazione e sanificazioni di quartieri popolari, nella convinzione che la condizione sociale fosse strettamente correlata all’assenza di adeguate condizioni igienico-sanitarie che potevano facilitare la veicolazione del “morbo”.

Si vivevano momenti surreali e di apparenti contraddizioni: le fabbriche producevano a pieno regime, i mezzi pubblici viaggiavano al massimo della capienza, ma furono disposte limitazioni alle cerimonie funebri e al termine delle funzioni (alle quali partecipavano solo i sacerdoti) le salme venivano portate nottetempo al cimitero con autocarri o con speciali treni tranviari funebri. L’immagine dei morti trasportati in carri collettivi, talora senza cassa e avvolti un semplice lenzuolo, destava molta impressione nell’immaginario collettivo e anche la terribile esperienza della guerra, al confronto, sembrava meno tangibile  di quella che la popolazione civile stava vivendo nella sua quotidianità.

Un altro aspetto della quotidianità stravolta riguardò quelle abitudini sociali che vennero individuate come possibili veicoli di contagio. La prima era l’abitudine e di sputare per terra in strada. Evidentemente si trattava di una pratica piuttosto consueta visto che, per compensare la riprovazione sociale che  comportava, vennero prodotte e commercializzate eleganti sputacchiere delle quali, evidentemente, non si poteva fare a meno. 

La seconda abitudine che iniziava ad infastidire la pubblica opinione era quello della stretta di mano (al pari dell’abbraccio o dei baci) che veniva considerata “antigenica” al punto che Benito Mussolini sul “Popolo d’Italia” la definì “sudicia abitudine della stretta di mano”. Questa opinione, espressa da un Mussolini giornalista, venne dopo pochissimi anni ripresa dallo stesso in veste politica ed utilizzata per sostituire la stretta di mano con il “più igienico” saluto romano. E’ interessante notare come dalla tragedia della pandemia nacque uno dei concetti dell’ iconografia Mussoliniana: un saluto più rapido, immediato ed igienico; paradigmatico della rivoluzione fascista. Forse non fu solo la guerra a lasciare profonde cicatrici nel tessuto sociale italiano. La sfiducia e il sospetto nei confronti delle istituzioni liberali che governavano il paese, furono gli elementi che maggiormente indussero gli Italiani ad accettare prima e sostenere poi il fascismo. Sfiducia e sospetto che potrebbero affondare le loro radici anche sul modo con cui la pandemia venne affrontata, specie in merito ai protocolli di cura adottati.

 

 

Le cure

 

Il 6 ottobre del 1918 il quotidiano “Il resto del Carlino” ironizzava: “Tutti i medici poi sono concordi - pare impossibile tra tanta disparità di pareri - nel convenire che il medicamento più utile per tener lontana l'influenza è quello di non aver paura. 

Non c’era concordanza tra la comunità medica nel consigliare le cure adatte.  Si passava dal consigliare “un buon purgante” all’indicare il fumo di tabacco come un potente germicida. Altri medici consigliavano gargarismi con la tintura di jodio, altri erano sicuri che il chinino avesse delle proprietà curative che potevano essere molto utili contro “il bacillo di Pfeiffer”( germe ritenuto erroneamente il responsabile della pandemia, ma che invece era il batterio dell’haemophilus influenzae)Studi recenti hanno anche rilevato che le dosi di aspirina consigliate ai tempi della pandemia sono tutt’ora riconosciute come dosi tossiche.

Anche nel 1918 c’era poi la necessità di intervenire per smentire le “bufale”; quando si sparse la voce che dosi massiccie di bevande alcoliche potevano proteggere l’organismo dal contagio, furono necessari interventi autorevoli sui quotidiani per smentire seccamente la notizia.

Non solo  false notizie e difformità di indicazioni da parte della comunità scientifica, ma soprattutto uno scarso o nullo coordinamento a livello nazionale ed una paurosa scarsità di medici, al punto che molti malati non ne videro mai uno. La guerra aveva drenato il personale medico ed infermieristico e non bastò “reclutare” giovani studenti di medicina per colmare il vuoto.

Anna Kuliscioff in una sua lettera a Filippo Turati raccontava:  «È un problema trovare medici, tutti sono sopraffatti dal lavoro e nessuno è curato a dovere. Forse anche la grande mortalità è dovuta alla scarsa assistenza sanitaria».

 

 

 

Conclusioni

 

Non si può affermare con certezza  del perchè questa forma influenzale abbia colpito con tale virulenza e con tassi di mortalità così alti.   Sicuramente si trattò di una serie di concause, alcune delle quali abbiamo brevemente indicato (carenza di medici, microbiologia allo stato embrionale, cure non idonee, attenzione dei governi rivolte verso il conflittto in atto), altre riconducibili alla malnutrizione causata dal razionamento alimentare, alla mancanza di antibiotici, alla mancanza di un piano pandemico e di una centralizzazione delle decisioni sanitarie.  

Anche sulle cifre della pandemia non ci sono dati certi e le stime indicano una forchetta piuttosto ampia: dai 20 ai 100 milioni di morti nel mondo, mentre per quanto riguarda l’Italia si oscilla tra le 325.000 e le 600.000 vittime, numero questo terribilmente vicino a quello dei soldati italiani caduti in 3 anni e mezzo di guerra.  Considerando che la fase acuta della malattia durò non più di 5-6 mesi si comprende quanto violento possa essere stato l’impatto della pandemia nella società dell’epoca.

Dal punto di vista statistico, considerando le eccedenze del numero dei morti in Italia, dall’agosto 1918 al febbraio 1919 si registrarono oltre 500000 morti in più rispetto ai mesi precedenti (guerra compresa quindi),il tutto senza considerare i territori occupati dagli austriaci (che furono liberati non prima di novembre 1918), I prigionieri di guerra, ecc.

Anche l’aspetto più subdolo della pandemia, e cioè l’altissima mortalità tra i soggetti giovani, non è mai stato chiarito con certezza, anche se è molto probabile che le persone più grandi fossero immunizzate dalla precedente pandemia (1888-1892) che causò circa un milione di morti in tutto il mondo.

 


Fonti per l’articolo: La Spagnola in Italia – Eugenia Tognotti – Ed. Franco Angeli 2002-2015

                           https://academic.oup.com/cid/article/49/9/1405/301441?login=false




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