mercoledì 29 marzo 2023

I DUE AMMIRAGLI DI CAPO MATAPAN

I DUE AMMIRAGLI DI CAPO MATAPAN  


 di Fabio Bertinetti

 


La genesi dell’operazione

 

La notte tra il 28 e il 29 marzo del 1941, al largo del Peloponneso, si svolse la più importante tra le battaglie navali nelle quali venne coinvolta la Regia Marina.

Passò alla storia come battaglia di Capo Matapan, ma più che una battaglia fu uno scontro fortuito ed improvviso proprio nel momento in cui le navi italiane pensavano di esser riuscite a guadagnare la via di casa.

Il resoconto della battaglia ce lo restituiscono i due protagonisti principali:L’Ammiraglio Angelo Iachino, comandante in capo della flotta italiana, e l’Ammiraglio Cunningham, comandante della Mediterranean fleet, la squadra navale inglese stanziata ad Alessandria d’Egitto. Tutto ha inizio con le insistenze tedesche per un’azione della flotta italiana, volta ad intercettare i convogli che dall’Egitto si dirigevano in Grecia, per rinforzare le truppe inglesi, ivi stanziate. La Grecia aveva subito un attacco italiano destinato a “spezzarle le reni”, ma che in realtà si era dimostrato un fallimento. Dopo che il Regio Esercito riuscì a stabilizzare il fronte ed a bloccare la controffensiva greca, era ormai evidente come solo un’invasione tedesca potesse contribuire ad avere finalmente ragione delle difese elleniche.

 I Tedeschi, quindi, nella persona dell’ammiraglio Weichold, chiesero alla Regia Marina di mettere sul piatto tutta la sua potenza (nominalmente era la quinta marina da guerra del mondo) e bloccare i rinforzi Inglesi che stavano affluendo proprio in ottica anti tedesca. Nelle informazioni che trasmise a Roma, via lettera, l’ammiraglio tedesco riferiva che secondo le loro valutazioni solo una nave da battaglia (corazzata) inglese era presente ad Alessandria  e precisamente la Valiant che solo pochi mesi più tardi sarebbe stata seriamente danneggiata in porto dagli incursori della X MAS.  L’informazione tedesca parve credibile allo stato maggiore italiano, in quanto il X CAT (comando aereo tedesco) nei giorni precedenti riferiva di aver attaccato e silurato due corazzate inglesi. 

In risposta alla sollecitazione tedesca Supermaria (Stato Maggiore della Regia Marina) elaborò un piano basato su tre squadre navali che si sarebbero posizionate sia a nord che a sud di Creta per attuare il blocco desiderato. All’azione avrebbe partecipato una delle due nuove superdreadnought italiane, la Vittorio Veneto, entrata in servizio da pochi mesi e caratterizzata da velocità protezione e potenza di fuoco superiori alle navi da battaglia inglesi presenti in mediterraneo (eccetto alle classe Nelson). Le altre navi erano 6 incrociatori pesanti (classe Zara e classe Trieste) armati con cannoni da 203 mm (anch’essi superiori in calibro agli Orion britannici) e due incrociatori leggeri con pezzi da 152   mm (Garibaldi e Duca degli Abruzzi). Completavano la lista 13 cacciatorpediniere in funzione di unità siluranti e antisommergibile. L’ordine di battaglia Inglese era più consistente di quanto supposto dai tedeschi e in particolare comprendeva:  1 portaerei, 3 Navi da Battaglia, 4 incrociatori leggeri e 16 cacciatorpediniere. 

Un altro elemento su cui Iachino pensava di poter contare era rappresentato dalla promessa di ricevere adeguato supporto aereo da parte della Regia Aeronautica. Anche se la distanza dalle basi italiane era proibitiva (al punto da rendere impossibile l’utilizzo prolungato del X CAT operante dalla Sicilia), Supermarina aveva avuto assicurazioni che apparecchi da caccia con serbatoi supplementari sarebbero decollati dalle isole del Mar Egeo.  In questo modo si sarebbe potuta compensare quella che la stessa battaglia di Capo Matapan evidenziò come grave mancanza della Marina Italiana: la mancanza di portaerei. 

La sera del 26 marzo del 1941 l’Ammiraglio Iachino salpò da Napoli con direzione sud-est.  Solo poche ore prima un aereo da ricognizione tedesco aveva fotografato tre navi da battaglia Inglesi nelle acque di Marsa Matruth che rientravano verso Alessandria. La notizia venne comunicata a Supermarina, ma l’Ammiraglio Iachino sostenne di non averla mai ricevuta. Non un buon inizio, dunque.

La mattina del 27 marzo la Vittorio Veneto, scortata da 4 cacciatorpediniere, raggiunge lo stretto di Messina e si riunisce con la III Divisione incrociatori (Trento, Trieste e Bolzano e relativa squadriglia di cacciatorpediniere). A quel punto le navi avrebbero dovuto essere scortate da 10 aerei da caccia tedeschi, con il compito di tenere lontani eventuali ricognitori nemici e ritardare la scoperta.  A causa della foschia gli aerei germanici non riuscirono a trovare la formazione italiana, mentre miglior fortuna ebbe un idrovolante inglese che riuscì ad avvistare la formazione vanificando l’effetto sorpresa.

La sera dello stesso giorno l’Ammiraglio Cunningham mollò gli ormeggi a bordo della corazzata Valiant, unitamente alla Warspite, alla Barham, alla portaerei Formidable, più la solita scorta di cacciatorpediniere. Parecchie miglia più avanti incrociava la squadra del viceammiraglio Pridham-Wippel al comando degli incrociatori Ajax, Perth e Gloucester. In realtà Cunningham dichiarò di esser certo che le navi italiane non si sarebbero fatte vedere in zona al punto da scommettere, simbolicamente, dieci scellini con un ufficiale del suo Stato maggiore che non avrebbero visto il nemico. Naturalmente perse la scommessa. 

 

La battaglia di Gaudo

 

Siamo arrivati così al 28 marzo e la flotta italiana giunge nei pressi dell’isola di Gaudo appena a sud di Creta così disposta: La Vittorio Veneto e la III divisione in posizione più avanzata (verso Alessandria), mentre la I divisione (Zara Pola e Fiume) e l’ VIII divisione (Garibaldi e Duca degli Abruzzi) in posizione più arretrata.  Ognuna di queste formazioni aveva il proprio “corredo” degli onnipresenti cacciatorpediniere. Iachino lancia degli idrovolanti dalla Vittorio Veneto e dal Bolzano con l’obiettivo di ricercare i convogli da attaccare.  Non sapeva, l’Ammiraglio italiano, che Cunningham aveva provveduto a richiamare due convogli  nel momento in cui, la sera precedente, aveva avuto notizia che tre incrociatori italiani avevano preso il mare.  I due idrovolanti italiani non trovarono alcun convoglio. In compenso si imbatterono nella squadra incrociatori del viceammiraglio Pridham-Wippel che aveva ricevuto l’ordine di trovarsi all’alba del 28 marzo proprio nei dintorni  di Gaudo. Fu il primo degli incontri casuali che caratterizzarono lo svolgersi delle due diverse battaglie. L’avvistamento degli incrociatori inglesi avvenne alle 7.00, mentre solo trentanove minuti più tardi un aereo decollato dalla portaerei Formidable individuò le navi italiane e comunicò la loro posizione a Pridham-Wippel.  La Formidable faceva parte del grosso della forza da battaglia che in quel momento si trovava a circa 90 miglia dalle due squadre italiane.  Alle 8,12 i tre incrociatori italiani aprirono il fuoco da 24000 metri di distanza e iniziarono ad inquadrare l’incrociatore Gloucester pur senza colpirlo. Gli Inglesi risposero al fuoco, ma le salve risultarono troppo corte e la stessa reazione era poco convinta, anche perché le navi britanniche avevano invertito la rotta per puntare vero il loro gruppo da battaglia.  In pratica volevano sia sfuggire agli incrociatori italiani, sia ridurre le distanza tra gli stessi e le loro corazzate. In ogni caso ancora non si erano accorti della presenza della Vittorio Veneto.   Per circa 40 minuti l’azione di fuoco continuò senza però che nessuna nave inglese venisse colpita. A quel punto l’Ammiraglio Sansonetti, al comando della III divisione, ruppe il contatto e invertì la rotta in direzione nord ovest (300°). Le navi inglesi si ritirarono dopo l’emissione di cortine fumogene e nel  frattempo le navi di Cunningham si erano avviciniate a circa 65 miglia. Passarono pochi minuti e la tattica inglese sembrò più chiara. Il gruppo di incrociatori, in realtà, non stava abbandonando la battaglia ma solo tentando di farsi inseguire dalle navi italiani per farle finire “in bocca” ai grossi calibri di Cunnningham.  Una volta che Sansonetti e Iachino ebbero assunto rotta 300, gli inglesi invertirono nuovamente la rotta per mantenere il contatto con gli italiani. A quel punto il comandante della flotta Italiana decise di tentare una manovra di aggiramento del gruppo incrociatori nemici  con la Vittorio Veneto da levante e con la III divisione da ponente. Iachino contava sul fatto che gli inglesi non avessero ancora individuato la sagoma possente della sua corazzata, tentò così di prenderli di sorpresa e tagliargli la via della ritirata. La manovra non riuscì perfettamente e invece di aggirare gli incrociatori se li trovò di prora a dritta. “ Si sviluppò così un rapido e violento scontro a controbordo tra il solo V.Veneto e gli incrociatori nemici, i quali però poterono subito accostare verso sud, ritirandosi ad alta velocità e coprendosi con cortine di fumo. Il nostro tiro fu spesso centrato, come riferirono gli stessi inglesi, ma mancò il colpo fortunato che arrestasse una di quelle unità[1]. In pratica un nulla di fatto da parte italiana, nonostante la superiore potenza di fuoco della nave da battaglia. Considerando che si erano fatte ormai le 10.30, la distanza dalla forza principale si era ridotta e un gruppo di aerosiluranti tipo “Albacore” iniziò ad attaccare la Vittorio Veneto. I sei siluri lanciati vennero tutti evitati, ma l’accostata della corazzata italiana la portò ad allontanarsi dal gruppo di incrociatori nemici. Anche la seconda fase della battaglia era terminata e le navi italiane ripresero la rotta verso la madrepatria.  Durante l’azione un gruppo di caccia pesanti tedeschi tentò di ostacolare la manovra e fu l’unico tentativo di difesa della flotta italiana che le forze aeree dell’asse intrapresero in quelle due giornate di battaglia. L’attacco degli aerei inglesi era appena terminato quando Iachino ricevette da Supermarina la notizia della presenza della Formidable.  A parte il fatto che l’Ammiraglio italiano aveva avuto modo di accorgersene in autonomia, ma la cosa ancora più grave fu l’assenza dell’informazione relativa alle tre corazzate che accompagnavano la portaerei. Solo alle 14.25 Iachino ricevette la notizia che un aereo italiano proveniente dall’Egeo aveva avvistato (due ore prima!!) una nave da battaglia, una portaerei, 6 incrociatori e 5 cacciatorpediniere 75 miglia a levante della loro posizione. L’Ammiraglio non diede particolare credito alla segnalazione visto che lo stesso tratto di mare era stato esplorato poco prima da alcuni idrovolanti di bordo e questo la dice lunga sulla fiducia che Iachino poteva avere nel servizio di ricognizione della Regia Aeronautica, ma poi “Soltanto alla fine della guerra, si è potuto appurare che quell’avvistamento era invece esatto ed era stato fatto, non da un ricognitore, bensì da due Aerosiluranti dell’Egeo che si erano avvicinati alla Formidable e l’avevano attaccata col siluro. L’attacco era fallito; ma la notizia sarebbe stata molto utile per noi, se avessimo saputo che proveniva da aerei che non potevano aver sbagliato il riconoscimento della nave attaccata e che, essendo tornati subito alla base, non potevano nemmeno aver commesso grossi errori di stima. Purtroppo il ritardo con cui pervenne  quel telegramma di avvistamento e la sua provenienza erroneamente attribuita a un ricognitore lo resero  poco attendibile tanto al comando squadra quanto a Supermarina, che non gli dette credito e non lo ritrasmise nemmeno a noi, come faceva per ogni notizia di qualche interesse”[2].

Nel frattempo la Vittorio Veneto continuava a subire attacchi aerei fino a che in quello delle 15.19 un aerosilurante “Swordfish” (identico a quelli che avevano attaccato Taranto) riuscì a piazzare un siluro a poppa a sinistra, venendo poi abbattuto. La nave subì danni importanti: imbarcò circa 4000 t di acqua e perse definitivamente l’uso delle due eliche di sinistra.  Anche il timone rimase bloccato e sembrò quasi che la nave fosse stata paralizzata.  Dopo circa quaranta minuti si riuscì a riparare i danni e mettere in condizione la nave di riprendere la rotta alla velocità di 16 nodi. La preda era ferita e i cani da caccia iniziarono a fiutare il sangue.  Alle 15.50 Iachino venne sviato da un altro rapporto (questa volta tedesco) che faceva riferimento all’avvistamento di 165 miglia dalla loro posizione di una nave da battaglia 4 incrociatori e 12 cacciatorpediniere. Tale informazione coincideva con una comunicazione di Supermarina che riferiva rilevamenti radiogoniometrici utili ad individuare una nave nemica che trasmetteva ordini 170 miglia a sud della loro posizione.  Entrambe le informazioni sembravano quindi confermare si la presenza di una consistente squadra nemica, ma a notevole distanza e con velocità inferiore. Da questo momento in poi il timore di Iachino saranno esclusivamente gli attacchi aerei. Ordina alla I e alla III divisione di disporsi a dritta e a sinistra della nave ferita, predisponendo i cacciatorpediniere in fila in posizione esterna rispetto agli incrociatori. Si viene così a costituire una formazione compatta di 18 navi intorno alla Vittorio Veneto in modo da generare un micidiale fuoco antiaereo e una cortina fumogena che potesse nascondere le unità dalla vista del nemico, in più Iachino dispose di far accendere e sventagliare i proiettori dei cacciatorpediniere a desta e a sinistra con l’obiettivo di abbagliare i velivoli attaccanti. 

Alle 19.30 un gruppo di aerosiluranti attaccò la formazione e, nonostante le difese predisposte, riescì a colpire con un siluro l’incrociatore Pola.  Al rientro degli aerosiluranti questi dichiarano di aver colpito delle navi italiani e a quel punto gli incrociatori di Pridham Wippel partirono alla caccia delle navi colpite con l’intento di trovarle danneggiate e silurarle definitivamente. Fortunatamente non trovarono alcuna nave visto che la formazione italiana aveva accostato di 30° subito dopo l’attacco aereo e aveva aumentato l’andatura a 19 nodi.  Gli inglesi non trovarono neanche il Pola che avendo imbarcato grandi quantità di acqua aveva subito lo spegnimento delle caldaie e la perdita dell’energia elettrica. La nave era paralizzata in mezzo al  mediterraneo come un bastimento fantasma.


Capo Matapan

 

Il siluramento del Pola non era passato inosservato dall’ ammiraglia della squadra incrociatori, nonostante il buio. L’Ammiraglio Cattaneo, imbarcato sull’incrociatore Zara ricevette la comunicazione dalla Regia Nave Fiume e immediatamente contattò il Pola per chiedere le sue condizioni. Il messaggio venne intercettato da bordo della Vittorio Veneto ed in quel momento Iachino fu messo a conoscenza del siluramento del Pola e della sua immobilizzazione. In quel momento il comandante della flotta italiana prende una decisione che sarà cruciale per lo svolgersi della battaglia. Lasciamo raccontare da lui il ragionamento che lo condusse a tale decisione:

Proprio in quel momento mi fu portato un telegramma di Supermarina, giunto durante l’attacco aereo, che comunicava ce un’unità nemica, sede di comando complesso, era stata radiogoniometrata alle 17,45 in una posizione a circa 75 mg di poppa al Vittorio Veneto. Non poteva certo essere quel gruppo di grandi unità nemiche che, due ore prima, si trovava a 160 mg da noi; doveva perciò trattarsi del solito gruppo Orion, che ci stava seguendo fin dal mattino, e perciò non me ne preoccupai. Quando, poi alle 20.30, si intercettò il segnale nemico che ordinava alle sue navi di ridurre la velocità a 15 nodi, io logicamente lo interpretai come l’intenzione degli Orion di desistere dal seguirci per evitare una incerta e pericolosa mischia notturna.”

Seguendo il filo del suo ragionamento, Iachino, autorizzò l’ammiraglio Cattaneo ad invertire la rotta con i suoi due incrociatori pesanti (Zara e Fiume) e la scorta di 4 cacciatorpediniere (Carducci , Oriani, Gioberti e Alfieri), per soccorrere il Pola, magari rimorchiandolo o, comunque, per porre in salvo quante più persone dell’equipaggio.

Iachino ignorava che il grosso della flotta nemica composto dalle corazzate Malaya, Warspite e Barham stava giungendo rapidamente nei pressi dell’incrociatore immobilizzato.

Dal racconto di Cunningham: “Verso le 19.30 quando era quasi notte, i nostri aerei Swordfish si levarono per la terza volta all’attacco. Pridham Wippel era a sole 9 miglia dal nemico. I rapporti dei piloti indicavano qualche probabile colpo a segno, senza tuttavia poterlo confermare. Dovevo ormai prendere una decisione. Non era cosa facile. Ero convinto che sarebbe stato sciocco non fare tutto il possibile per annientare il Vittorio Veneto. Ma l’Ammiraglio italiano doveva conoscere perfettamente la nostra posizione e disponeva di cacciatorpediniere e di incrociatori in quantità A uno posto, nessun ammiraglio inglese avrebbe esitato a lanciare tutti i cacciatorpediniere e gli incrociatori dotati di lanciasiluri contro la muta che lo inseguiva. Alcuni ufficiali mi fecero notare che era imprudente inseguire ciecamente gli italiani, con il rischio di esporre le nostre unitaà pesanti e la portaerei, e la possibilita di trovarci, il mattino dopo , a portata dei bombardieri nemici. Ascoltai con molta deferenza i loro ragionamenti, ma siccome era giunta l’ora di cena dissi che prima avrei pranzato e he poi si sarebbe visto. Quando risalii in plancia, ero ottimista e ordinai alla forza d’attacco di C.T. di muovere alla ricerca del nemico e di impegnarlo.

Alle 22,25 le corazzate inglesi sono giunte nei pressi del Pola, nella speranza potesse trattarsi della Vittorio Veneto. Hanno tutti i pezzi puntati sul Pola quando improvvisamente scorgono le sagome dello Zara e del Fiume che tagliano la rotta delle loro corazzata. La Valiant aveva il radar (fatto sconosciuto agli italiani) e grazie al radar il gruppo si era avvicinato al Pola.  Neppure il radar però riuscì ad evitare l’incontro inaspettato con la squadra dell’ammiraglio Cattaneo.  Da una distanza di 3500 metri (praticamente a bruciapelo visti i calibri da 381 mm delle navi da battaglia), gli inglesi aprirono il fuoco mentre il C.T. Greyhoud accese il proiettore su uno degli incrociatori italiani:

Nel fascio di luce, vidi i nostri sei grossi proietti in aria , e li seguii. Cinque su sei colpirono l’incrociatore un poco al di sott del ponte di coperta, e detonarono scoppiando con dei bagliori fiammeggianti. Gli italiani erano stati presi alla spoìrovvista. I loro cannoni erano brandeggiati nel senso poppa-prora e non poterono tentare alcuna difesa. Di poppavia a noi, la Valiant aveva aperto il fuoco nello stesso tempo. Anch’essa aveva inquadrato il proprio bersaglio, e io L’osservavo mentre polverizzava il su avversario. Non avrei mai creduto che fosse possibile una tale celerità di tiro con cannoni così grossi. La Formidable aveva accostato sulla dritta, ma a popavia della Valiant , la Barham faceva fuoco con tutti i suoi pezzi”.

Mentre le navi da battaglia inglesi facevano fuoco sullo Zara e sul Fiume il gruppo di CT di scorta tentò un contrattacco disperato, caricando le navi inglesi lanciando alla disperata (e al buio) salve di siluri.  Le unità inglesi accostarono violentemente a dritta per evitarli, quindi concentrarono il fuoco anche sulle unità di scorta. In pochi minuti la marina italiana perse due incrociatori pesanti e due cacciatorpediniere, mentre nel corso della notte anche nave Pola, raggiunta dalle navi inglesi, venne silurata a affondata.

A fronte di 2400 marinai italiani morti, gli inglesi registrarono unicamente la perdita di un aerosilurante e i suoi tre uomini di equipaggio.

 

I due ammiragli.

 

Le cause della sconfitta di Matapan furono molteplici.  Innanzitutto un’impreparazione tecnologica e dottrinale della Regia Marina nel combattimento notturno.  Gli italiani, infatti, non avevano radar, non avevano munizionamento adeguato per combattere di notte, non avevano l’addestramento specifico ed inoltre era previsto che nelle ore notturne le artiglierie delle navi fossero disposte “per chiglia”, cioè in posizione di riposo e non pronte al fuoco.

Anche il livello di collaborazione (scarsa) tra Regia Aeronautica e Regia Marina fu tra le cause della sconfitta, per non parlare del fatto che gli inglesi avevano portaerei (rivelatisi determinanti nello specifico) e gli italiani no (Mussolini riteneva non fossero necessarie a causa della posizione strategica dell’Italia al centro del mediterraneo).

Un aspetto interessante da sottolineare, leggendo i racconti dei due ammiragli, è il loro diverso grado di sicurezza e di padronanza dell”arena di combattimento”, che a conti fatti risultò determinante, non tanto nello scontro di Gaudo (dove la squadra incrociatori e la Vittorio Veneto pur martellando con veemenza le navi inglesi non riuscirono mai a colpirle), quanto nello scontro notturno ove senza la scelta di mandare in soccorso l’intera I divisione incrociatori, le perdite sarebbero state indubbiamente inferiori (il solo Pola). La scelta invece maturò anche a causa della convinzione errata di Iachino che il grosso della forza inglese fosse parecchio distante e che non si sarebbe mai impegnata in uno scontro notturno (ragionamento questo contaminato dalle disposizioni della Regia Marina di cui sopra, che non erano affatto condivise dalla dottrina inglese che invece per lo scontro notturno era perfettamente preparata).

Dal racconto di Iachino permea una continua alea di incertezza sia sul supporto da parte della Regia Aeronautica, sia sulla composizione e sulla posizione delle forze nemiche. In pratica l’ammiraglio italiano chiede, supppone e agisce passivamente agli eventi che per lui sembrano incontrollabili.  L’Ammiraglio inglese, di contro, è sempre ben informato e consapevole della situazione tattica (per quanto lo si possa essere in guerra) e ciò non solo per la presenza del radar a  bordo di alcune unità inglesi, ma fin dal momento della partenza della flotta italiana. 

Carico di significato è anche il fatto che Cunningam nel momento di decidere se inseguire le navi italiane di notte (con il rischio di esporsi ad attacchi aerei la mattina successiva) non decide d’impeto: si consulta con i suoi ufficiali e successivamente si prende i tempo necessario per una decisione ponderata (dopo aver cenato!!). 

Sicuramente l’atteggiamento di un vincente.

La battaglia di Capo Matapan fu uno scontro sicuramente shoccante per la marina italiana e per lo stesso Duce.  L’idea di poter competere contro la prima marina del mondo si era rivelata illusoria e anche la convinzione che le portaerei non servissero venne presto rivista sia dallo Stato Maggiore della Marina che dallo stesso Duce.  Proprio il disastro di Matapan fu l’ultimo degli eventi che permisero l’impostazione sugli scale  di due portaerei da 23000 tonnellate circa, chiamate Aquila e Sparviero, che avrebbero dovuto compensare tale mancanza.  Purtroppo la costruzione delle unità non venne completata in tempo e l’armistizio dell’ settembre colse le due unità in avanzato stato di costruzione, ma ancora sugli scali.

Nei mesi successivi al marzo del ’41 altri scontri navali si registrarono in mediterraneo, ma mai si riuscì a “vendicare” l’onta di Matapan in battaglie tra navi di linea. In parte ci riusciranno gli uomini della X Mas che riuscirono ad affondare ad Alessandria una delle corazzate protagoniste dello scontro: la Valiant.



[1] Tutta la Seconda Guerra Mondiale vol 1 – Selezione dal Readers Digest S.p.a – Milano 1975 pag 276

[2] Ibidem pag 278

domenica 12 marzo 2023

I MAIALI L’OLTERRA E GLI UOMINI GAMMA



I MAIALI, L’OLTERRA E GLI UOMINI GAMMA


 di Fabio Bertinetti


Quando si pensa agli uomini della X Decima Flottiglia MAS viene in mente l’azione più eclatante che alcuni di loro riuscirono a portare a termine: l’incursione nel porto di Alessandria d’Egitto con l’affondamento delle Navi da Battaglia Valiant e Queen Elizabeth e della petroliera Sagona. In realtà, poi, la Valiant e la Queen Elizabeth non affondarono grazie al basso fondale, ma rimasero fuori combattimento per parecchi mesi.  L’azione di Alessandria ebbe un alto valore strategico che, se fosse stato meglio sfruttato dalla Regia Marina, avrebbe potuto anche cambiare le sorti della guerra navale in mediterraneo 10 mesi prima della battaglia di El Alamein….ma questa è un’altra storia.

La storia della X MAS non fu solo Alessandria, ma tante altre azioni. Alcune riuscite, altre meno. Cercheremo di raccontarne qualcuna, tanto per far capire lo spirito di innovazione e sperimentazione che pervadeva l’animo di questi “arditi del mare”

  

Gli inizi

 

In particolare le prime missioni non furono fortunate. Già nell’agosto del 1940 il sommergibile Iride venne affondato da un gruppo di aerosiluranti inglesi nel Golfo di Bomba al confine tra Libia ed Egitto. L’Iride era incaricato di trasportare alcuni SLC (Siluri a lenta corsa comunemente chiamati “maiali”) con relativi operatori per tentare il forzamento del porto di Alessandria d’Egitto. Proprio il momento in cui il sottomarino aveva ricevuto a bordo sia i mezzi che gli operatori della X MAS (trasportati sul posto dalla torpediniera Calypso) la formazione navale italiana venne scoperta da alcuni ricognitori inglesi e, successivamente, ingaggiata da tre aerosiluranti appositamente decollati. L’attacco affondò l’Iride e la nave appoggio Monte Gargano. 

Il fallimento dell’operazione non comportò scoramento e già il 30 ottobre dello stesso anno un SLC pilotato dal tenente di Vascello Gino Birindelli e avente per secondo il 2° Capo palombaro Paccagni , riuscì a superare le ostruzioni del porto militare di Gibilterra. Purtroppo a soli 50 metri dalla Nave da Battaglia Barham (che venne affondata l’anno successivo da un sommergibile tedesco) furono costretti a venire a galla a causa di un problema tecnico e non riuscirono a sfuggire alla cattura.  Anche in questo caso nessuna nave venne affondata, ma gli “arditi del mare” riuscirono a dimostrare che azioni del genere erano  possibili. Sarebbe stata solo questione di tempo e di lavoro sull’efficienza dei mezzi. Proprio l’efficienza dei mezzi, in quel momento, era l’elemento cruciale per consentire la riuscita delle missioni, al punto che nella alla stessa azione di Birindelli e Paccagni parteciparono altri due equipaggi e nessuno di loro riuscì a raggiungere il bersaglio. Tutti si videro costretti ad autoaffondare i loro maiali, riemergere per venire poi catturati. Nel maggio del 1941 si tentò un’altra operazione contro Gibilterra  e anche questa volta, causa un avaria agli autorespiratori, non si riuscì a raggiungere gli obiettivi.

Non passò molto tempo che, finalmente, gli uomini della “decima” riuscirono ad intrufolarsi nella base di Gibilterra ed affondare tre piroscafi. Era settembre e solo tre mesi dopo ebbe luogo la gloriosa azione di Alessandria d’Egitto.

Non vennero utilizzati solo i “maiali” per affondare le navi Inglesi, ma c’erano altri mezzi e altri metodi per infilarsi nei porti e colpire il nemico: I “barchini esplosivi”.   Non erano mezzi suicidi, come potrebbe sembrare, ma il loro utilizzo era comunque piuttosto pericoloso.  Erano dei motoscafi con velocità prossime ai 34 nodi e con una carica esplosiva sistemata a prua di circa 300kg.  Il suo utilizzo era piuttosto semplice: venivano trasportati nei pressi del bersaglio da una nave più grande (normalmente un cacciatorpediniere), si avvicinavano e quando erano alla giusta distanza venivano lanciati verso di esso a gran velocità dall’operatore che li governava.  Solo pochi secondi prima di collidere il pilota bloccava il timone e si lanciava verso poppa utilizzando un apposito salvagente. In questo modo si evitava di morire in azione, anche se in alcuni casi gli operatori di barchino esplosivo non sono riusciti a sfuggire ad un destino tragico.

 

Successi e insuccessi

 

La notte del 26 marzo del 1941 sei barchini esplosivi vennero rilasciati dai cacciatorpediniere Sella e Crispi nella vicinanza della Baia di Suda a Creta. Grazie alla particolare conformazione dello scafo riuscirono a superare agevolmente le ostruzioni portuali e si lanciarono contro tre navi: la petroliera Pericles, un trasporto truppe e l’incrociatore pesante York. Quest’ultima unità, in particolare, era piuttosto potente trattandosi di un incrociatore “tipo Washington” (rispettando i limiti imposti da tale trattato), armato con cannoni da 203 mm (il massimo per le navi di tale classificazione) e dal dislocamento di 10000 tonnellate a pieno carico.  In assoluto le navi più potenti escludendo le corazzate.  Unità in grado di minacciare seriamente i traffici marittimi da e verso la Libia.  Dopo l’azione gli operatori furono tutti fatti prigionieri, ma l’incrociatore York, pur non affondando, subì danni talmente seri da non rientrare mai più in servizio. 

 

Non tutte la azioni dei barchini esplosivi, però, riuscirono nel loro intento.  Una, in particolare, è ricordata per il pesantissimo tributo di sangue che richiese. Tributo non sufficiente a poter portare a compimento la missione.

Si tratta del tentativo di forzamento del porto di Malta per attaccare e distruggere quante più navi ormeggiate, in particolare i temuti sommergibili che, proprio dalla piccola isola, partivano per tendere agguati alle navi italiane sulla rotta di rifornimento per la Libia.

Il piano prevedeva la partecipazioni di circa 8 barchini esplosivi (anche definiti MTM), due MAS siluranti e due SLC.  Proprio uno dei due SLC si sarebbe dovuto avvicinare alle ostruzioni portuali per distruggerle con la sua potentissima carica. Successivamente un altro SLC e i barchini esplosivi sarebbero dovuti irrompere nel porto ed attaccare quanti più bersagli possibile.  Un vero e proprio attacco in massa coordinato, che richiese anche l’intervento di alcuni bombardieri in funzione diversiva.

Trattandosi di un attacco complesso il tutto doveva avvenire in stretto coordinamento, però a causa di problemi tecnici di alcuni mezzi, l’azione di distruzione delle ostruzioni portuali ritardò. Superato il termine previsto nessuna esplosione si era sentita, quindi il Capitano di Corvetta Giobbe ordinò a due MTM di lanciarsi contro le ostruzioni per aprire il varco. In tal modo pensava di sostituire l’azione dei barchini a quella dell’SLC pilotato da Teseo Tesei (comandante e fondatore della X MAS).  In realtà il mezzo di Tesei era ancora al lavoro e il ritardo non era dovuto all’uccisione o alla cattura di Tesei, ma ai problemi tecnici già illustrati.  Proprio il momento in cui i barchini colpirono le ostruzioni, anche l’SLC di Tesei esplose (probabilmente spolettato a tempo 0, cioè deliberatamente senza possibilità di scampo per l’equipaggio). A quel punto la reazione britannica si fece sentire e i cannoni iniziarono ad aprire il fuoco.  Ormai l’accesso al porto era ostruito dalle esplosioni dei due barchini e dell’SLC e da quel momento in poi ci fu un vero e proprio tiro al bersaglio contro le forze italiane.  Non solo. Anche alcuni caccia decollarono per attaccare le forze di supporto presenti qualche miglio più a largo. Ingaggiarono duelli aerei con i caccia Macchi C 200 che non riuscirono ad impedire ulteriori perdite agli italiani.

Al termine dell’azione oltre alla perdita di Teseo Tesei (medaglia d’oro alla memoria per quest’azione) morirono altri 14 operatori e si persero tutti i mezzi impiegati.  L’insuccesso dell’azione fu causato dalla complessità della stessa e dal fatto che gli inglesi erano già stati allertati dai sistemi radar presenti sull’isola, ai quali non era sfuggito il movimento di mezzi delle ore precedenti. Era il 26 luglio del 1941.

 

Uomini Gamma

 

Alle volte la semplicità è il miglior modo per portare a termine azioni difficili.  Come abbiamo visto i “Maiali” (SLC) erano soggetti ad avarie, e l’utilizzo dei barchini esplosivi non sempre garantiva il successo a causa del fatto che erano unità che si muovevano in superfice.

La specialità degli Uomini Gamma, invece, fu quella che in rapporto alle forze utilizzate, conseguì forse i risultati più brillanti. Nessuna azione, in realtà  raggiunse i risultati eclatanti di quella di Alessandria d’Egitto (affondamento di Valiant e Queen Elizabeth), ma numerosi mercantili furono attaccati e affondati.  Ma come operavano gli Uomini Gamma?  La G di gamma indicava la specialità di “Guastatori” ed erano dei subacquei che si avvicinavano ai bersagli senza particolari mezzi di trasporto e applicavano delle piccole cariche chiamate “cimici” o “mignatte” o delle cariche più potenti definite “valigette”. Avevano la particolarità di esplodere a distanza di tempo. Erano dotati di un’etichetta che entrava in funzione a velocità superiori a 5 nodi.  Dopo un certo numero di giri di elica (qualche migliaio) la carica esplodeva e ciò consentiva di affondare la nave non direttamente in porto, ma quando ormai si trovava in alto mare.  Nessuno avrebbe così pensato ad un’incursione, quanto piuttosto ad una mina o ad un siluro, alle volte, poi, consentiva di attaccare le navi in porti neutrali senza compromettere il rapporto diplomatico tra questi e l’Italia.

Un esempio d questo tipo di azioni fu l’operazione ( o meglio le operazioni) messe in atto da un solo uomo che nel corso di alcune settimane affondò tre piroscafi per circa 10000 tonnellate. Ai primi di giugno del 1943 il tenente Luigi Ferraro si presentò al console italiano di Alessandretta (in Turchia) munito di passaporto diplomatico, come addetto al consolato per compiti speciali. L’immunità diplomatica gli aveva consentito di portare nei suoi bagagli il corredo di uomo Gamma (compresi i bauletti esplosivi). Grazie ad una serie di coperture il tenente Ferraro (appartenente all’esercito in realtà ma arruolato nella X MAS) riuscì ad immergersi, attaccare dei piroscafi sia ad Alessandretta che nella vicina Mersin (porti di imbarco dei minerali di cromo destinati alla Gran Bretagna) e rientrare al consolato ogni volta. In un occasione non riuscì ad affondare il bersaglio per il malfunzionamento di uno dei due bauletti, ma negli altri casi le navi affondarono come da programma. Dopo aver terminato la scorta di bauletti, il 2 agosto del 1943, tornò in Italia “per motivi di salute”, senza venir mai scoperto.

 

L’Olterra.

 

Immaginate un porto in una città neutrale: Algeciras. Immaginate che questo porto sia un bellissimo terrazzo che si affaccia sul porto nemico: Gibilterra.  Immaginate quindi che all’interno di una baia (quella di Gibilterra) un esiguo braccio di mare divida un porto neutrale (con un governo non troppo ostile) ove i controlli erano auspicatamente lievi ed un porto nemico ove le misure di sicurezza erano sempre più strette, anche in maniera direttamente proporzionale ai successi degli incursori italiani.

Nel maggio del 1942 Antonio Ramognino, un civile inquadrato nella X MAS, ebbe l’idea di utilizzare una nave mercantile italiana che la guerra aveva sorpreso nel porto di Algerciras. La nave era sottoposta ad un regime di vigilanza da parte della polizia spagnola, ma ciò non impedì agli incursori italiani di svolgere una serie di lavori di trasformazione che  comportarono un’apertura nello scafo, sotto il livello di galleggiamento, per consentire l’accesso e la fuoriuscita di operatori della X MAS in maniera del tutto occulta.  In questo modo la Regia Marina evitava le missioni di trasporto tramite i sommergibili che diventavano sempre più rischiose. Bastava inviare operatori e mezzi d’assalto (smontati) in Spagna e utilizzando sia l’Olterra, sia Villa Carmela (un casale vicino Algeciras dal quale si riusciva dominare la baia di Gibilterra) si potevano lanciare incursioni con estrema precisione e al momento giusto.  Numerose missioni vennero svolte con questa modalità e visto che la Royal Navy non aveva compreso da dove venissero lanciati gli incursori in molti casi furono coronate da successo.  Purtroppo nessuna di queste riuscì a ripetere il successo di Alessandria, visto che gli operatori della “decima” affondarono sempre delle navi da carico.  Solo una volta si rischiò di assestare un duro colpo agli inglesi. Era l’8 dicembre del 1942 ed era passato quasi un anno dall’operazione di Alessandria che, complice la conquista Alleata del Nordafrica, il porto di Gibilterra era pieno di navi da guerra.  Gli uomini della X MAS tentarono di approfittarne. Uscirono dall’Olterra a bordo di 3 SLC con l’obiettivo di attaccare la corazzata Nelson  (una nave armata con cannoni da 406mm), e le portaerei Furios e Formidable. Ormai la flotta italiana non usciva quasi più dai porti per scarsezza di nafta e sarebbe stata un’ occasione d’oro per indebolire le forze nemiche. Dei sei uomini che parteciparono alla missione, ben tre furono uccisi dalle bombe di profondità lanciate periodicamente dagli inglesi come misura di sbarramento, due furono scoperti dalla luce dei proiettori e si arresero (fecero credere agli inglesi di essere stati sbarcati da un sommergibile), mentre il sesto operatore riuscì a rientrare all’Olterra con il suo SLC.

 

Le attività svolte dalla X flottiglia MAS durante la seconda guerra mondiale furono quelle che in termine di costo/efficacia causarono più danni alle forze inglesi.  Per tutta la durata della guerra nessuna nave maggiore o sommergibile della Regia Marina riuscì mai ad affondare una corazzata nemica, mentre anche l’affondamento di navi di media importanza come gli incrociatori si verificarono solo ad opera di naviglio sottomarino, ma mai a causa di scontro di superficie. 


Bibliografia:  


Storia della II GM – Volume 4 -  Rizzoli - Milano 1967

 Tutta la Seconda Guerra Mondiale vol 1 – Selezione dal Readers Digest S.p.a – Milano 1975 

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